Prevenzione Alzheimer, un nuovo studio apre e nuove possibilità

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Un nuovo studio sta chiarendo in che modo gli scienziati possono sviluppare interventi precoci per contrastare la progressione dell’Alzheimer. Apparso su The Journal of the Federation of American Societies for Experimental Biology, lo studio ricorda come il morbo di Alzheimer sia una malattia neurodegenerativa che colpisce il cervello di una persona. È la forma più comune di demenza, che colpisce circa 5 milioni di persone negli Stati Uniti a partire dal 2014. Quelli con la malattia sono in genere oltre i 60 anni di età.

Una persona affetta da Alzheimer può iniziare a manifestare sintomi, come una lieve perdita di memoria, ma può progredire fino alla completa incapacità di rispondere al proprio ambiente. Non è ancora chiaro cosa causa il morbo di Alzheimer, ma gli scienziati pensano che sia probabilmente il risultato di numerosi fattori, come l’età di una persona, il profilo genetico, ed eventualmente l’educazione, la dieta e l’ambiente.

Non esiste una cura nota per il morbo di Alzheimer, il che significa che i trattamenti si concentrano tipicamente sull’aiutare una persona a gestire i sintomi e a rallentare la progressione della malattia.

Ebbene,  in questo contesto, secondo la Dott.ssa Caterina Scuderi, Professore assistente di farmacologia e tossicologia della Sapienza Università di Roma, Italia, e i suoi coautori, ci sono tre “segni distintivi” del morbo di Alzheimer nel cervello di una persona.

Questi marcatori rivelatori sono il deposito di peptidi beta-amiloidi nello spazio intorno ai neuroni di una persona, l’accumulo di proteine all’interno dei neuroni e la neuroinfiammazione.

Il ruolo della neuroinfiammazione è stato evidenziato in una ricerca condotta all’inizio del 2015 dal Prof. Michael T. Heneka, del Dipartimento di Neurologia dell’Ospedale Universitario di Bonn, Germania, e dai suoi coautori, che hanno suggerito: “la neuroinfiammazione, invece di essere un semplice spettatore attivato da placche senili emergenti e grovigli neurofibrillari, contribuisce tanto o più alla patogenesi [del morbo di Alzheimer] quanto le placche e i grovigli stessi”. Inoltre, per il team del Prof. Heneka, ci sono prove di “un coinvolgimento precoce e sostanziale dell’infiammazione nella patogenesi della malattia”.

È questa neuroinfiammazione precoce che gli autori del nuovo studio hanno voluto approfondire.

Secondo la dottoressa Scuderi e i suoi coautori, l’infiammazione è una componente importante della malattia di Alzheimer a causa della reazione immunitaria dell’organismo ai depositi anomali iniziali nelle cellule cerebrali.

Tuttavia, invece di migliorare le cose, questa reazione immunitaria che causa l’infiammazione può svilupparsi rapidamente al punto da promuovere la progressione del morbo di Alzheimer.

Secondo la ricerca, “starare un intervento nella fase più precoce della malattia, quando le alterazioni cellulari e molecolari sono già state innescate ma non si sono ancora verificati danni rilevanti al cervello, potrebbe offrire un modo per ridurre il numero di persone che continuano a sviluppare una demenza completa da Alzheimer. Tuttavia, ci sono stati pochi studi sugli animali, esaminando le strategie terapeutiche che prendono di mira i punti di tempo prima che i sintomi possano essere visti”.

Di conseguenza, gli studiosi hanno sviluppato modelli di Alzheimer sia in vitro che in vivo per vedere come l’alterazione della neuroinfiammazione precoce possa influire sulla malattia di Alzheimer.

Hanno  così scoperto che la neuroinfiammazione riequilibrante può rallentare la progressione del morbo di Alzheimer.

Gli autori si sono concentrati sul ruolo delle cellule gliali, che circondano le cellule neuronali nel cervello e che i ricercatori pensano siano fondamentali per lo sviluppo della malattia di Alzheimer.

Per Scuderi, “i nostri risultati aiutano a dimostrare che la neuroinfiammazione nella malattia di Alzheimer è un fenomeno estremamente complesso che può cambiare durante la progressione della malattia e varia in base a fattori come l’area cerebrale colpita. Ci auguriamo che questi risultati spingano gli scienziati a studiare ulteriormente la neuroinfiammazione nelle prime fasi della malattia, che può rappresentare un importante obiettivo farmacologico”.

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